Il padiglione d'oro

… è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo … (A. Baricco)

“Quando il Giappone scoprì l’Italia”: percorsi inediti al MUDEC di Milano

Nell’ambito del progetto dedicato all’Oriente che il MUDEC di Milano ospiterà nelle sue sale fino al prossimo 2 febbraio, troviamo due mostre.
Della prima, bellissima, “Impressioni d’Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone”, ho parlato in questo articolo dello scorso novembre.
La seconda mostra riguarda più specificatamente l’Italia: “Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie di incontri. 1585-1890” e illustra i primi rapporti fra il nostro Paese e il mondo giapponese, indagando l’immaginario che si andava formando da entrambe le parti in un momento così importante di apertura al mondo, sia da parte europea che da parte nipponica.
Come dicevo, quindi, uno spaccato molto particolare che rivela storie e personaggi decisamente inediti.
La prima sezione della mostra, “Itō Mancho e le ambascerie giapponesi 1585-1615”, ripercorre la storia dei primi contatti fra Europa e Giappone e, in particolare, la cosiddetta “ambasceria Tenshō”, lo straordinario e poco noto viaggio di quattro giovanissimi nobili originari dell’isola del Kyūshū attraverso la penisola italiana, nel 1585, e il cui capo delegazione Itō Mancho è magistralmente ritratto da Domenico Tintoretto, figlio di Jacopo, in un dipinto “vivente”, esposto per l’occasione per la prima volta in Europa.

Domenico Tintoretto, Ritratto di Itō Mancio, 1585 (olio su tela – Fondazione Trivulzio, Roma)

Mercanti e missionari furono i protagonisti dei primi scambi culturali ed economici.
L’anno di inizio dei contatti diretti fra europei e giapponesi è stato individuato nel 1543, quando tre mercanti portoghesi sbarcarono a Tanegashima, un’isola dell’arcipelago giapponese.
Pochi anni dopo, nel 1549, giunse in Giappone padre Francesco Saverio, tra i fondatori dell’ordine dei Gesuiti, e con il suo arrivo prese avvio l’evangelizzazione del Paese. Grazie alle missive dei gesuiti, puntuali e dettagliate, il Giappone, sino ad allora misconosciuto, divenne una realtà concreta, assumendo un conformazione sempre più definita, come si può vedere anche dalle rappresentazioni cartografiche esposte.

Abrahamus Ortelius, Tartariae Sive Magni Chami Regni typus, in Theatrum orbi terrarum, Antuerpiae, auctoris aere & cura impresso absolutumque apud Ægid, Coppenium Diest, 1570 (Acquaforte – Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano). Raccolta delle carte di tutto il mondo allora conosciuto dagli europei. Portata in Giappone, contribuì ad ampliare le limitate conoscenze geografiche dei giapponesi.

Il Giappone del XVI secolo era dilaniato da una sanguinosa guerra civile, iniziata nel 1467 per una delle tante controversie in merito alla successione alla carica di shōgun, il capo del governo militare. Solo nel 1603 il Paese fu del tutto assoggettato a Tokugawa Ieyasu, la cui casata avrebbe governato per oltre due secoli e mezzo, fino al 1868. Consolidato il potere, i Tokugawa, temendo ingerenze e influenze esterne, proibirono quasi totalmente l’accesso ai mercanti e ai missionari stranieri, ponendo così termine a quello che alcuni studiosi hanno definito il “secolo cristiano” del Giappone.
Tornando ai Gesuiti, dopo la prima evangelizzazione ad opera di Saverio, il personaggio chiave della diffusione in sito del cristianesimo fu Alessandro Valignano, incaricato dal 1573 di riorganizzare la missione delle Indie, la più grande delle province della Compagnia di Gesù, includente Etiopia, India, Malacca, Cina, Corea e Giappone.
Il gesuita si recò in Giappone tre volte fra il 1579 e il 1603, per un totale di circa dieci anni. Dopo un primo disorientamento suscitato dalla scoperta di un popolo di civiltà antica e assai diversa da quella europea, Valignano iniziò a visitare prima le missioni del Kyūshū, l’isola meridionale dove si era maggiormente diffuso il cristianesimo, per raggiungere poi la missione di Miyako, l’antica capitale.
Instancabilmente Valignano si reca preso le missioni più remote, fonda scuole, seminari e collegi, accademie di musica e arte; costruisce chiese e orfanotrofi, chiamando dall’Europa maestri, architetti e artisti, impianta tipografie e stampa libri, indice consulte e chiede ai missionari di «accomodarsi» agli usi e alla mentalità del luogo disponendo «che apprendino tutti la lingua» della terra, convinto che la strada dell’evangelizzazione sia quello del dialogo e passi per la conoscenza dell’idioma. Il periodo che intercorre tra l’operato di Saverio e quello di Valignano – ideatore della missione dei quattro ragazzi giapponesi – è stato definito, come già accennato prima, “il secolo cristiano” del Giappone, un periodo di prima conoscenza tra culture lontane, bruscamente troncato dall’ascesa al potere di Tokigawa Ieyasu nel 1603.
Fu dunque Alessandro Valignano a decidere di inviare in Europa, nel 1582, una missione di giovani nobili convertiti al cristianesimo: capeggiata da Itō Sukemasu “Mancio”, con Chijiwa Seizaemon “Michele”, Nakaura “Giuliano, Hara “Martino”, condotti da padre Diego de Mesquita, la missione sollevò vasta curiosità.
L’itinerario tra Portogallo, Spagna, stati d’Italia, è documentato tappa dopo tappa da disposizioni per organizzarne l’ospitalità, dispacci diplomatici, relazioni delle visite, attestazioni di gratitudine e scambio di doni. In diverse occasioni i ragazzi vengono anche ritratti: nei Palazzi apostolici di Roma dopo le udienze presso Gregorio XIII, pontefice dal 1572, e Sisto V, eletto proprio durate la loro presenza in città; al Teatro Olimpico di Vicenza, in un codice del geografo Urbano Monti a Milano. E soprattutto a Venezia, in quel dipinto cui si è accennato a inizio articolo, commissionato dal Senato alla bottega del celebre Jacopo Tintoretto e destinato a venire esposto nella Sala del Maggior Consiglio, in ricordo del soggiorno dei giapponesi in laguna dal 25 giugno al 6 luglio 1585.

Urbano Monti, Compendio delle cose più notabili della città di Milano ed in specie della famiglia Monti (Inchiostro e acquerello su carta – Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano). Questo è uno dei quattro volumi manoscritti di una cronaca redatta soprattutto per tramandare eventi legati alla famiglia Monti. La parte dedicata alla visita dei quattro giovani giapponesi è molto ampia.

Duarte de Sande, Alessandro Valignano, De Missione, 1590 (Volume a stampa su carta – Biblioteca Casanatense, Roma). L’opera racconta il lungo viaggio che portò i quattro nobili giapponesi fino a Roma per rendere omaggio al papa a nome del «re giapponesi».

Pietro Gagliardi, Bozzetto dell’affresco di Palazzo Boncompagni con Gregorio XIII che riceve i tre sovrani del Giappone, 1855-1858 (Olio su tela – Museo di Roma, Roma)

Al ritorno in Giappone, nel 1590, i giovani legati e Valignano trovarono un Paese assai diverso. A causa della crescente diffidenza verso le potenze cattoliche, la libertà d’azione e di movimento dei gesuiti era stata notevolmente ristretta.
In Europa, alla rivalità fra le corone di Castiglia e Portogallo si era aggiunta la contrapposizione tra le nazioni cattoliche e quelle protestanti.
In questo contesto, lo shōgun Tokugawa Ieyasu e i successori, preoccupati dal rischio di instabilità politica e sociale che la presenza degli stranieri rischiava di creare, inasprirono le persecuzioni. Nel 1614 fu emanato l’editto di espulsione di tutti i religiosi. Alcuni missionari riuscirono, a rischio della vita, a rimanere, ma, dopo la rivolta del 1637 nella penisola di Shimabara, che vide la partecipazione di molti cattolici giapponesi, fu adottata una politica di repressione brutale e sistematica, accompagnata dalla quasi ermetica chiusura del Paese.

Jacques Callot, I martiri del Giappone, 1628 (Acquaforte – Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano)

Il percorso prosegue focalizzando l’attenzione sulla seconda ambasceria giapponese in Italia, quella del 1615, detta Keichō dal nome dell’era giapponese, e sulla chiusura dei porti del Giappone dal 1639 al 1853. Il daimyō di Sendai, Date Masamune, inviò nel Vecchio Continente il suo vassallo Hasekura Tsunenaga Rokuemon e il francescano Luis Sotelo, con l’obiettivo di agevolare l’apertura di una nuova rotta commerciale con la Spagna. Sotelo, inoltre, desiderava mostrare inoltre a Filippo III d’Asburgo e papa Paolo V le occasioni di evangelizzazione offerte dai territori del nord-est giapponese, chiedendo di essere nominato vescovo di quelle terre.

Attribuito a Archita Ricci, Ritratto di Hasekura Tsunenaga, 1615 ca. (Olio su tela – Collezione privata, Palazzo Isolani, Roma)

I delegati raggiunsero Madrid a fine 1614 e lì venne celebrato il battesimo di Hasekura. Ciò però non bastò a garantire l’appoggio del sovrano e del pontefice: il primo si limitò ad accogliere gli inviati senza compromettersi con concessioni e neppure il viaggio a Roma – di cui preziosa testimonianza è l’affresco nel Salone dei Corazzieri del palazzo del Quirinale – sortì effetti sul piano diplomatico.
L’infelice conclusione di questo ambizioso progetto vide Hasakura rientrare in patria nel 1620 dove, in un clima influenzato dalle crescenti persecuzioni, fu costretto ad abiurare. Né miglior sorte ebbe Sotelo: raggiunta Nagasaki nel 1624, venne denunciato come cristiano e arso sul rogo nello stesso anno.
Questi primi contatti hanno lasciato una traccia concreta in preziosi oggetti, ritratti quasi parlanti, cronache, lettere e opere letterarie, chiamate a restituire al pubblico di oggi il mistero e la curiosità di un incontro inconsueto, in un’epoca in cui nemmeno si sapeva dove fosse esattamente collocato il Giappone.
I “barbari del sud” (nanban) – come venivano definiti i portoghesi giunti in Giappone dalla rotta sud-est asiatica – portavano con sé tecniche, supporti e soggetti nuovi che parlavano di un mondo europeo sconosciuto, e d’altro canto prendevano a piene mani dalle culture asiatiche importando oggetti e costumi esotici per il mercato europeo e occidentale in genere.
Lacche, tessuti, mobili d’arredo, ceramiche e porcellane di fattura giapponese ebbero un’enorme diffusione come oggetti di lusso e da collezione, parte di quelle “cose curiose” che non potevano mancare nei palazzi di nobili italiani ed europei.

Manifattura giapponese, Cappelliera in stile nanban, Periodo Momoyama (1573-1603) (Legno laccato, parzialmente dorato e argentato, intarsiato in madreperla – Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze). La cappelliera faceva parte dei beni del cardinale Leopoldo de’ Medici e poi del granduca Cosimo III.

Manifattura giapponese, Baule a due corpi in stile nanban, Periodo Momoyama (1573-1603) (Legno laccato, parzialmente dorato e argentato, intarsiato in madreperla) ( Collezione Koelliker). Secondo una tradizione orale della precedente proprietà, sarebbe uno dei bauli da viaggio di Cristina di Svezia.

Tra i preferiti vi erano oggetti di porcellana giapponese, vasi, giare e piatti con motivi floreali coloratissimi, perlopiù prodotti nell’isola meridionale di Kyūshū. Cofanetti, bauli, scatole in lacca urushi intarsiata e decorata, furono definiti nanban perché mescolavano motivi e fatture giapponesi e portoghesi pensati per l’esportazione in Europa.
A Milano è nota la presenza precoce di oggetti provenienti dal Giappone nella collezione del Museo Settala: oggi sono in gran parte perduti, ma sono ancora apprezzabili negli acquerelli realizzati all’epoca per il “catalogo illustrato” del Museo settaliano, che era famoso in tutta Europa e ospitava oltre 3000 oggetti.

Manifattura giapponese, Cofano da viaggio in stile nanban, Periodo Momoyama, 1573-1603 (Legno laccato, parzialmente dorato e argentato, intarsiato in madreperla (Collezione Koelliker)

Volume di disegni rappresentanti oggetti del Museo Settala ceduto dalla Biblioteca di Brera alla Biblioteca Ambrosiana dietro compenso, 6 luglio 1907, XVII sec. (Inchiostro e acquerello su carta – Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano)

Manifattura De Dissel (Delft), Due piatti decorati con motivi vegetali e floreali, Seconda metà XVII sec. (Maiolica – Civiche raccolte d’Arte Applicata del Castello Sforzesco, Milano)

I Tokugawa limitarono anche le attività dei mercanti stranieri.
A farne le spese furono portoghesi e spagnoli, mentre gli olandesi, meno interessati alla dimensione religiosa, gestirono un regime di monopolio dalla base nell’isola artificiale di Dejima di fronte a Nagasaki, città amministrata dai Tokugawa e rappresentata nel kakemono qui esposto.

Ishizaki Yushi, Dipinto su rotolo (kakemono) con veduta della baia di Nagasaki con l’isoletta di Dejima, 1820 ca. (Inchiostro e colori su seta – Coll. C. Giussani, Museo delle Culture, Milano)

Formalmente la chiusura del paese fu imposta con una serie di editti emanati tra il 1633 e il 1639. L’editto finale sancì l’adozione di una rigida politica di chiusura o sakoku, letteralmente “paese in catene”. Terminò il commercio con il Portogallo e tutti i portoghesi furono espulsi dal paese sotto pena di morte.
Furono imposte restrizioni anche alla circolazione delle idee, applicando una rigorosa censura ai libri occidentali e cinesi importati. Solo nel 1720 la censura fu allentata e la scienza occidentale riprese a circolare in Giappone. Ma per la fine del sakoku bisognerà attendere il 1853 e l’arrivo delle “navi nere” del commodoro statunitense Matthew Perry, il quale costringerà i Tokugawa ad aprire i porti, una scelta che determinerà la caduta del regime e l’avvio di una rapida modernizzazione sotto l’egida del governo imperiale.
Tuttavia, attraverso olandesi e cinesi, circolavano ancora oggetti e motivi decorativi, come le porcellane, specie in stile cosiddetto imari, con i caratteristici colori rosso, blu e oro. La produzione avveniva nell’area di Arita e partiva dal porto di Inari, da cui appunto presero il nome. Tali oggetti incontrarono subito il favore del mercato ed entrarono nell’immaginario e negli status symbol dei notabili del tempo, finendo dipinte in ritratti ed esposte nelle case e nelle mense europee.
Come ogni prodotto di successo non mancarono le imitazioni: le manifatture europee iniziarono a produrre oggetti decorati come quelli giapponesi, imitandone spesso anche le forme, ma ovviamente non la materia, trattandosi di fatto di maioliche molto fini: il segreto della porcellana sarà svelato solo nel XVIII secolo.

Manifattura giapponese, Ciotole decorate con motivi floreali, Periodo Momoyama (1573-1603) o Periodo Edo (1603-1868), XVII-XVIII secco. (Porcellana dipinta, invetriata e dorata – Coll. B. Greppi Belgioioso, Museo delle Culture, Milano)

Come già detto, nel 1853 le navi statunitensi agli ordini del commodoro Perry raggiunsero la baia di Edo, attuale Tōkyō, intimando al governo nipponico di aprire i poti dopo oltre due secoli di consapevole isolamento dal resto del mondo.
Il Giappone soffriva di una grave crisi economica che il governo militare degli shōgun non sapeva più gestire. Il diffuso malcontento sfociò in sanguinose rivolte armate conclusesi nel 1868 con la destituzione dell’ultimo dittatore Tokugawa e la contemporanea restaurazione al potere della casa imperiale. Il sovrano Mutsuhito inaugurò l’epoca Meiji, letteralmente del “governo illuminato”, dando inizio a riforme che avrebbero cambiato ogni ambito della vita dei giapponesi, traghettando il paese verso la modernità.
Il Giappone si svelò così al resto del mondo per quello che era, una sofisticata civiltà millenaria e un territorio dalla natura rigogliosa. Europei e statunitensi si riversarono nell’arcipelago, chi per visitarlo alla scoperta della sua bellezza, chi in cerca di occasioni per concludere buoni affari. Contemporaneamente moltissimi oggetti d’arte giapponese furono esportati all’estero, alimentando un fenomeno di gusto che avrebbe influenzato gli artisti europei in cerca di inedite fonti di ispirazione.
La seconda sezione, “Un Museo giapponese in Lombardia”, è dedicata alle collezioni giapponesi raccolte dal conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua e ora appartenenti al MUDEC.
Il conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua nacque a Milano il 24 giugno 1845, terzogenito in una famiglia di nobilissimo retaggio. Poco si conosce della sua biografia e purtroppo l’unica immagine che di lui sia sopravvissuta è quella che lo ritrae bambino.
Nel 1871-72 intraprese un viaggio intorno al mondo con l’obiettivo di raggiungere l’allora mitico Giappone. Il breve diario scritto di suo pugno e alcune lettere che spedì ai suoi familiari permettono di ricostruire a grandi linee come il conte – dal temperamento schivo e malinconico – visse quell’avventura e come si svolse il viaggio.
Il 9 luglio 1871 si imbarcò a Marsiglia sul Pej-ho, un battello della flotta della “Compagnie des Messageries Maritimes”, passando poi Suez, Aden, Ceylon, Saigon, Hong Kong, Shangai e infine, dopo oltre due mesi di viaggio, raggiunse Yokohama.
In Giappone rimase per oltre quattro mesi, durante i quali acquistò gli oltre trecento oggetti che andranno a comporre il suo straordinario Museo.

Manifattura giapponese, Portantina per dama (onna norimono), Periodo Edo (1603-1868), XVIII sec. (Legno laccato e dorato, metallo dorato, carta dipinta, seta – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Manifattura giapponese, Bruciaprofumi a forma di fenice (hōō), Periodo Edo (1603-1868) o Periodo Meiji (1868-1912), ante 1874 (Bronzo fuso a cera persa e dorato – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Sappiamo che il Giappone tanto affascinò il Conte che egli scrisse che, se non fosse stato per il desiderio/obbligo di rivedere l’amata patria e qualche parente, si sarebbe stabilito definitivamente in Giappone.
Non è possibile avere un’idea precisa di come il Conte avesse concepito l’allestimento del suo Museo Giapponese. Possiamo però ipotizzare che egli abbia radunato i pezzi per tipologie di materiali (bronzi, ceramiche, lacche, tessuti e militaria), senza tenere in gran conto la reale provenienza dei singoli oggetti (se cinesi o giapponesi), preferendo invece una disposizione che potesse destare lo stupore e l’ammirazione nel visitatore.

Tra gli oggetti portati in Italia da Lucini Passalacqua non mancano naturalmente le lacche.
La laccatura è una delle glorie artistiche del Giappone, per le tecniche di lavorazione, i materiali preziosi, la varietà delle decorazioni. La vernice, utilizzata fin dalle epoche più remote, era apprezzata per le sue proprietà impermeabilizzanti e l’effetto lucido e levigato che donava agli oggetti. A questo si aggiunsero in seguito le decorazioni, in parte rielaborate da originali cinesi – come l’intaglio a lacca rossa -, in parte creazioni autonome – come la “pittura a oro cosparso” (maki-e), una tecnica che prevede l’utilizzo di scagliette d’oro e polvere, con un luminoso e intenso effetto visivo.
Gli europei erano consapevoli del livello superiore della lacca giapponese, anche rispetto a quella cinese, ed è per questo che gli inglesi fin dal Settecento utilizzarono il termine “japanning” come sinonimo di laccatura.

Manifattura giapponese, Bardatura da cavallo (umayoroi), Periodo Edo (1603-1868), XIX sec. (Cuoio, seta, cartapesta, legno, lacca, rame decorato, ferro, argento – Firma Nagamichi sulle staffe – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Manifattura giapponese, Elmo stravagante (kawari kabuto) e maschera, Periodo Edo (1603-1868) (Acciaio, cartapesta laccata, seta, crine – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Oltre alle lacche, Lucini Passalacqua acquistò in Giappone un gran numero di preziose stoffe di seta, nella cui produzione il Paese del Sol Levante ha una secolare e straordinaria tradizione.
Oltre alla qualità delle stoffe, è incredibile la ricchezza delle decorazioni, applicate con grande varietà di tecniche, tra cui il ricamo di fili policromi e striscette di carta dorata.
Motivi di fiori, raffigurazioni animali sia reali che fantastici, eleganti geometrie: i tessuti giapponesi colpiscono per la fantasia degli ornati, concepiti con libertà spaziale, senza quindi particolare attenzione alla simmetria.

Manifattura giapponese, Tessuto, Periodo Edo (1603-1868) o Periodo Meiji (1868-1912), XIX sec., ante 1874 (Seta, carta dorata – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Fra i tessuti più sfarzosi che la tradizione giapponese abbia mai ideato, vanno senza dubbio annoverati i costumi del Nō, la più sofisticata forma di teatro giapponese, venuta in auge fra il XIV e il XV secolo alla corte degli shōgun.
Gli abiti teatrali qui esposti sono preziosa dimostrazione della raffinatezza di questi manufatti, indossati solo da attori maschi, i quali impersonavano anche i ruoli femminili. Confezionati con i materiali più lussuosi, in certi casi questi costumi venivano donati in segno di devozione a monaci buddhisti che li ritagliavano per ricavarne una sorta di mantellina: un’usanza che strideva con la scelta di umiltà e moderazione professata dai religiosi.
Oltre ai costumi, lo strumento principale della recitazione nel teatro Nō sono le maschere, veri e propri capolavori di intaglio che hanno il compito di suggerire al pubblico quei sentimenti che derivano dall’evoluzione della trama.

Manifattura giapponese, Maschera Ōbeshimi, Periodo Edo (1603-1868), XVII-XVIII secco. (Legno di cipresso dorato e dipinto, gesso, metallo dorato – Coll. G. B. Lucini Passalacqua, Museo delle Culture, Milano)

Per concludere, non posso che consigliare la visita di questa vasta mostra, in entrambe le sue parti, che svela al pubblico aspetti decisamente curiosi e poco conosciuti, ma molto interessanti per approfondire la conoscenza di un Paese che, ancora oggi, resta permeato da un alone di magia e mistero.

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Fonte: pannelli esplicativi esposti in mostra
(Le fotografie sono personali)

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