… è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo … (A. Baricco)
Lo scorso settembre sono tornata con Eleonora nella mia amata Napoli, complice il gala “Roberto Bolle and Friends” presentato per la prima volta al Teatro di San Carlo.
Questo ritorno è stato occasione per visitare la Reggia di Capodimonte, che ospita un museo incredibile per dimensioni, numero e varietà di opere esposte; e sono solo una minima parte dell’enorme patrimonio in dotazione del museo.
Sono rimasta davvero estasiata di fronte a tanta opulenza e ricchezza, che non pensavo assolutamente di trovare e che, per scarsità di tempo, non ho nemmeno visitato nella sua interezza.
La reggia di Capodimonte fu costruita a partire dal 1738 per volere di Carlo di Borbone come luogo dove ospitare una collezione di opere d’arte, la collezione Farnese, iniziata da papa Paolo III nel XVI secolo e continuata dai suoi discendenti, ereditata dalla madre Elisabetta Farnese e ancora divisa tra Roma e Parma.
Con l’arrivo dei francesi a Napoli nel 1806 la reggia diventa residenza reale, con la costruzione di ville e casini per i dignitari di corte e un collegamento diretto con la città.
Nel 1816 viene restaurata la dinastia borbonica e il re Ferdinando è entusiasta della nuova impronta data al palazzo: anche il secondo piano è liberato dal resto delle opere d’arte rimanenti, trasferite al palazzo degli Studi e destinato alla servitù; vengono organizzate feste ed eventi; il giardino è aperto alla popolazione due volte l’anno. Dunque sia Ferdinando che il suo successore, il figlio Francesco I delle Due Sicilie, utilizzano la reggia a scopo residenziale, affiancandola a quelle di Portici e Caserta.
Con Ferdinando II delle Due Sicilie, che sale al trono nel 1830, il palazzo viene ampliato e arricchito con decorazioni e opere acquistate dai sovrani, fino al suo completamento nel 1838.
Con l’unità d’Italia e la nomina di Annibale Sacco a direttore della Real Casa, la reggia continua a svolgere la sua funzione abitativa per conto di casa Savoia. Sacco vi trasferisce un gran numero di porcellane, l’armeria, un pavimento in marmo ritrovato nel Settecento durante gli scavi archeologici di una villa imperiale a Capri e crea al piano nobile una sorta di pinacoteca che raccoglie opere pittoriche di artisti napoletani.
Nel XX secolo prosegue la sua funzione abitativa: spesso vi soggiorna Vittorio Emanuele III di Savoia e, in seguito, la reggia viene assegnata come dimora alla famiglia del duca d’Aosta, nonostante il passaggio dell’edificio dalla Corona al demanio nazionale nel 1920.
Solo al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, viene designata la sua nuova funzione, ossia quella museale. Nel 1952 iniziano i lavori di restauro, con la valorizzazione degli ambienti residenziali e del parco e l’adattamento delle sale all’esposizione delle opere.
Il Museo Nazionale di Capodimonte è inaugurato nel 1957.
A seguito del terremoto dell’Irpinia del 1980 si rendono necessari ulteriori restauri e, grazie all’arrivo di finanziamenti, il palazzo viene chiuso e quindi riaperto nel 1995, rendendo fruibile prima il primo piano, poi anche secondo e il terzo nel 1999.
Qualche numero: nel 2017 il museo ha fatto registrare 262.440 visitatori, collocandosi al 28° posto fra i 30 musei statali più visitati.
Le sale da visitare sono innumerevoli e costituiscono un vero labirinto. Il museo infatti ospita gallerie di arte antica, una di arte contemporanea e un appartamento storico.
Conserva prevalentemente pitture, distribuite nelle due collezioni principali, ossia quella Farnese, di cui fanno parte alcuni grandi nomi della pittura italiana e internazionale (per citarne solo alcuni: Raffaello, Tiziano, Parmigianino, Bruegel il Vecchio, El Greco, Ludovico Carracci, Guido Reni), e quella della Galleria Napoletana, che raccoglie opere provenienti da chiese della città e dei suoi dintorni, trasportate a Capodimonte a scopo cautelativo (fra gli altri Simone Martini, Colantonio, Caravaggio, Ribera, Luca Giordano, Francesco Solimena).
Importante anche la collezione contemporanea, unica nel suo genere in Italia, in cui spicca Vesuvius di Andy Warhol.
Noi abbiamo visitato per prime, poiché l’orario di chiusura era anticipato rispetto alle altre, le sale dedicate all’esposizione “Depositi di Capodimonte. Storie ancora non scritte”: un vero viaggio nella storia attraverso opere e reperti conservati, appunto, nei depositi e abitualmente non visibili al pubblico.
Ogni passo riserva una sorpresa, una meraviglia, un capolavoro.
«Ciò che è raro non è quello che piace a tutti, ma piuttosto quello che tutti ignorano»
(Nicolas Landau, 1889-1979, famoso mercante d’arte)
Il Deposito Borbonico raccoglie una selezione di opere di tema orientalista ed esotico, gusto che nasce già dal XVII secolo con le spedizioni esplorative, la scoperta di nuovi mondi e la nascita del colonialismo. Dopo le campagne napoleoniche in Egitto e Siria (1798-1801), l’orientalismo diventerà una vera e propria moda insieme al gusto neopompeiano, quando a temi storici, sociali o leggendari si accompagnarono rappresentazioni pervase di un erotismo trasferito in tempi o mondi lontani.
Troviamo oggetti etnografici rari del Settecento e singolari manufatti donati al re Ferdinando IV da Lord Hamilton e provenienti dalla raccolta del capitano James Cook, esploratore e cartografo della marina mercantile britannica, che raggiunse zone sconosciute e pericolose tanto da morire in un violento scontro con gli indigeni delle Hawaii nel 1779.
In sala sono presenti anche alcuni manufatti di provenienza extraeuropea della collezione del cardinale Borgia (1731-1804).
Nel Deposito Borbonico troviamo inoltre molto rappresentato il tema del ritratto – da quello storico a quello di genere, dall’idealizzazione classicista alla rappresentazione verista – e quello del paesaggio che, nato nel Seicento e considerato a lungo un genere inferiore, a partire dal Settecento si afferma con il Vedutismo e l’estetica romantica del sublime, fino alla grande rivoluzione attuata dall’Impressionismo proprio attraverso il paesaggio.
Alcuni dipinti di questa sala rappresentano scorci della Napoli di fine Ottocento.
Proseguendo nella mostra, troviamo il Deposito Farnesiano, uno dei più antichi del piano ammezzato della reggia. Fu riallestito negli anni Novanta del secolo scorso al fine di riunire i numerosissimi servizi di porcellana e le suppellettili farnesiane, borboniche e Savoia disperse tra i vari depositi e non selezionate per l’allestimento del percorso museale.
L’installazione di Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) – considerato uno dei maggiori artisti di fama internazionale – creata per la mostra “Carta bianca. Capodimonte Imaginaire”, chiude simbolicamente il percorso espositivo di “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”.
La grande installazione è stata realizzata utilizzando sia opere esposte che opere dei depositi e crea un’intensa relazione di sguardi che esalta l’incontro finalmente avvenuto tra epoche e stili diversi nel tempo e nello spazio.
Terminata la visita all’esposizione dei depositi, abbiamo proseguito perdendoci nel labirinto di sale dedicate a innumerevoli tematiche. Senza seguire un ordine preciso e con un racconto assolutamente per nulla esaustivo, eccone alcune.
La Quadreria Barocca, una carrellata di dipinti e oggetti dell’epoca.
Epigoni di Caravaggio, suddivisi in “Caravaggeschi del Sud” e “Caravaggeschi del Nord”.
Un altro seguace di Caravaggio, cui il museo dedica ampio spazio, è Jusepe de Ribera, pittore spagnolo della prima metà del Seicento attivo principalmente a Napoli, conosciuto anche con il soprannome di Spagnoletto, uno dei massimi protagonisti della pittura europea del XVII secolo.
La transizione da questi capolavori alla mostra allestita nella sala successiva è a dir poco traumatico. “Oro e rosso. Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue” si intitola e l’autore è Jan Fabre: « Artista visivo, creatore teatrale, performer e autore, Jan Fabre (Anversa, 1958) è una delle figure più innovative nel panorama dell’arte contemporanea internazionale», cita il pannello illustrativo.
Leggiamo che Jan Fabre, influenzato anche dalle ricerche di un altro Fabre, l’entomologo Jean_Henry (1823-1915), già da giovanissimo scopre il mondo degli insetti e di altre piccole creature. Alla fine degli anni Settanta, mentre studia all’Istituto di Arti Decorative e all’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa, inizia a esplorare la possibilità di introdurre il corpo umano nelle sue ricerche, nelle performance e nelle azioni sceniche.
Il linguaggio visivo di Jan Fabre vive all’interno di un mondo peculiare, popolato di corpi la cui esistenza è un costante esercizio di equilibrio sulla linea sottile tra la vita e la morte. La metamorfosi e la continua interazione tra animale e umano e tra umano e animale sono concetti chiave del suo canone visivo. L’universo fisico e spirituale di Fabre è racchiuso nei suoi testi letterari, annotazioni definite “Giornali notturni”.
Tra le opere più note, The Man Who Measures the Clouds del 1998, Heaver on Delight del 2002 e l’installazione The Man Who Bears the Cross del 2015 nella Cattedrale di Nostra Signora di Anversa.
Questa selezione di disegni, sculture e oggetti, databili dagli anni 1970 ai giorni nostri, è un campione altamente rappresentativo del lavoro di Jan Fabre, un distillato utile a familiarizzarsi con il talento visionario di questo plurimo maestro di Anversa.
Come sottolinea il curatore «A Capodimonte Fabre non balla da solo ma è ricollocato, in dialogo serrato e spesso scioccante, tra quegli antichi maestri, italiani e nordici, su cui d’altronde non ha mai smesso di interrogarsi. Da un lato questi confronti pongono Fabre in una luce nuova; dall’altro ci consentiranno di guardare alla massima pinacoteca meridionale con occhi nuovi, come non l’avessimo mai vista.»
Personalmente ho trovato carine le opere riportanti, a matita e sangue (!!!) su carta, alcune considerazioni sulla vita.
Senza voler nulla togliere a questi artisti e creazioni contemporanei (ormai si sa…io amo molto poco il contemporaneo), ci siamo quindi dirette “con passo lungo e ben disteso” verso Caravaggio e il suo mirabile trattamento della luce nella Flagellazione di Cristo.
A seguire opere di artisti campani e non, del tutto a me sconosciute ma di apprezzabile fattura e molto piacevoli allo sguardo.
Maestosa e direi quasi inebriante la Sala degli arazzi d’Avalos, tappezzata appunto di splendidi arazzi riportanti scene della battaglia di Pavia, combattutasi il 24 febbraio 1525 durante la guerra d’Italia del 1521-1526 tra l’esercito francese guidato da Francesco I e l’armata imperiale di Carlo V, guidata sul campo da Fernando Francesco d’Avalos e Carlo di Borbone. La battaglia si concluse con la vittoria di Carlo V e la cattura del re Francesco I.
Gli arazzi, tessuti a Bruxelles, descrivono con grandissima ricchezza di particolari e vividi colori le scene principali della battaglia, trasmettendo un’immagine molto realistica di ogni episodio.
Al primo piano abbiamo quindi visitato la Collezione Farnese, dove fanno splendida mostra di sé opere notissime di Raffaello, Sebastiano del Piombo, El Greco, Tiziano, Correggio, Parmigianino, oltre ad oggetti in ambra, bronzo, cristallo di rocca, argenti e maioliche e a opere fiamminghe del Seicento.
Ricchissima è la collezione dell’Armeria farnesiana e borbonica: circa 4.000 pezzi perlopiù di fattura milanese e bresciana, ma anche esempi spagnoli e tedeschi di armi da fuoco, taglio e difesa, armature da torneo e da guerra, pistole, spade, pugnali e archibugi.
La collezione di Capodimonte, una delle più notevoli d’Europa, va dal XV al XVII secolo e riesce quindi a tracciare una storia quasi completa delle armi europee d’epoca moderna.
Come presso le corti di Dresda, Vienna, Torino e Madrid, la funzione di queste armi era più di rappresentanza che militare. Un’arma da parata, infatti, non è solamente uno strumento di difesa o offesa, ma soprattutto un’opera d’arte, realizzata da artigiani con una formazione artistica e impiegando materie preziose.
Simbolo di potere e ricchezza, utilizzate durante le cerimonie e i tornei, le armi avevano per gli uomini la stessa funzione sociale dei gioielli per le donne. Come un abito simbolico, un’armatura rifletteva il casato, il gusto e lo status sociale del suo proprietario, nonché le abilità tecniche del suo creatore.
La raccolta è esposta con la serie di dipinti di Bernardino Campi (1522-1591), copie da Tiziano, che rappresentano gli imperatori romani in armatura antica e moderna.
Le armature più pregiate di casa Fanese furono commissionate a Pompeo della Casa (1537-1610), uno dei più abili armaioli del XVI secolo. Egli creò un insieme omogeneo di pezzi intercambiabili che potevano trasformare un’armatura da piede in armatura da cavallo o da giostra. La sua mano è riconoscibile grazie all’intaglio estremamente raffinato e con una decorazione ricca di simboli, come nelle armature dette “Volat” e “del Giglio”, capolavori della sezione.
Dopo la Collezione Farnese e l’Armeria, siamo quindi passate ad ammirare la Galleria delle Cose Rare, Wunderkammer, ossia una stanza delle meraviglie che aveva il compito di affascinare e stupire i visitatori: accanto alle normali pitture essa raccoglie infatti quelle opere preziose e rare – bronzetti, oggetti in avorio, monete, smalti, servizi in maiolica, cristalli di rocca, manufatti e reperti esotici – di quel che resta delle arti decorative della collezione Farnese, un tempo ospitata nella Galleria Ducale di Parma e in parte esposte al pubblico per la prima volta.
Anche i dipinti di Girolamo Mirola e Jan Sons, collocati all’ingresso della Galleria, si caratterizzano per l’argomento raffinato e intellettualistico. In particolare le undici tavole raffiguranti gli Amori degli Dei compongono un soffitto probabilmente realizzato da Jan Sons per un ambiente privato del Palazzo di Parma.
E’ espone qui per la prima volta il prestigioso servizio in maiolica blu del Cardinale Alessandro Farnese, il cui stemma compare, lumeggiato in oro, al centro di ogni pezzo. Fu eseguito dalle Officine di Castelli d’Abruzzo tra il 1574 e il 1589. Al centro del servizio, la Diana cacciatrice, di Jacob Miller il Vecchio, è in realtà un prezioso trofeo da tavola, munito di un meccanismo nella base ottagonale che lo rende semovente, e con la testa smontabile a fungere da coperchio o da coppa.
Ma le “meraviglie” non finiscono qui, anzi, siamo solo all’inizio.
In un susseguirsi di teche troviamo esposti innumerevoli oggetti, ninnoli, vasi, cofanetti, statuine, ceramiche e molto altro; oltre tremila pezzi provenienti da ogni parte del mondo e donati nel 1958 dal collezionista Mario De Ciccio al Museo Nazionale di Capodimonte.
Letteralmente ubriache da questa enorme vastità di opere e manufatti, abbiamo dovuto concludere qui la nostra visita, tralasciando, almeno per questa volta, il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, che raccoglie circa 2500 fogli e 25.000 stampe che spaziano dai cartoni preparatori ai disegni di autori quali Annibale Carracci, Guido Reni e Giovanni Lanfranco, ma anche Pontormo, Tintoretto, Andrea Del Sarto, Jusepe de Ribera.
E poi le collezioni del conte Carlo Firmian, che raccolgono oltre 20.000 stampe, tra gli altri di Albrecht Dürer, Stefano della Bella e Rembrandt, e la collezione Borgia, comprendente 86 fra acquerelli e disegni indiani
Quindi anche la Galleria delle porcellane, composta da oltre 3000 pezzi, di cui, per motivi di spazio, è esposta solo una piccola parte più rappresentativa dei servizi di porcellana di manifattura italiana e europea: Capodimonte, Sèvres, Meissen. E infine la sezione di arte contemporanea, la Galleria dell’Ottocento e la galleria fotografia.
Da non dimenticare poi le diciannove stanze dell’Appartamento Reale, chiuso al momento della nostra visita poiché era in allestimento la mostra “C’era una volta Napoli: storia di una grande bellezza”, che vedrà esposti oltre mille oggetti delle arti applicate – porcellane, ceramica, arredi, arazzi, parrucche settecentesche, dipinti, strumenti musicali, animali imbalsamati – accompagnati dalla musica del Settecento a Napoli e dai costumi del Teatri di San Carlo.
Insomma, un ottimo motivo per tornare a Napoli e concludere la visita di questo splendido gioiello targato “Italia”!
(le fotografie sono personali)
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