… è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo … (A. Baricco)
Danza apollinea e danza dionisiaca, o meglio: è più interprete un danzatore apollineo o uno dionisiaco?
Spesso mi è capitato di leggere considerazioni in merito alle qualità dionisiache o apollinee di alcuni ballerini, considerando positive solo le prime e di conseguenza i ballerini in loro possesso, gli unici in grado di dare ottime interpretazioni o comunque degne di nota.
Personalmente mi sono fatta un’idea un po’ diversa, ma credo sia necessario partire dall’inizio, ossia da Nietzsche, colui che ha introdotto il concetto di Apollineo e Dionisiaco nel suo La nascita della tragedia (origine ad oggi di fatto oscura per la mancanza di fonti e documentazione certe ad esclusione di ciò che Aristotele scrive nel suo Poetica), nel quale afferma che alla base della tragedia greca e di ogni creazione artistica vi è la contrapposizione in perfetto equilibrio tra lo spirito apollineo e lo spirito dionisiaco.
Gli antichi greci conoscevano molto bene le brutture dell’esistenza ed essendo estremamente sensibili al dolore crearono, tramite il loro genio artistico, gli dei e il loro mondo, quasi a voler interporre un velo, un filtro alle atrocità della vita. L’unico modo per sopravvivere era creare qualcosa di superiore che inducesse a continuare a vivere, così come l’arte il cui dio in origine era soltanto Apollo, un mondo di bellezza e di godimento in un’enorme illusione, l’Olimpo appunto, dove gli dei potessero essere buoni o cattivi.
All’arrivo però dall’Asia del nuovo culto di Dioniso si creò una certa rivoluzione, un tumulto in tutti i settori della società greca e, ovviamente, anche in quello dell’arte. Inizialmente, infatti, esisteva solo il mondo del sogno da cui aveva origine l’arte figurativa e una parte della poesia, il regno di Apollo appunto, a cui si legavano la luce, la bellezza, la giovinezza, la contemplazione, la bella illusione. Poi con Dioniso ecco arrivare il mondo dell’ebbrezza e del rapimento dei sensi: qui l’elemento naturale e dell’armonia universale si fa strada nell’uomo che sente ciò che prima viveva solo come immaginazione…diventa egli stesso opera d’arte.
Quindi da una parte avevamo Apollo con la sua piena e immobile visione della bellezza e dall’altra Dioniso con il compito di interpretare gli enigmi e le paure umane; in esso la natura svelava con terrificante chiarezza il suo segreto, esprimendo nella musica tragica il pensiero più intimo al di là delle apparenze, ossia la verità.
Il culto figurativo della civiltà apollinea trovò uno scopo nella misura oltre che nella bellezza. La misura può diventare un’esigenza solo là dove il limite è conosciuto e il limite che i Greci mantennero fu quello dell’illusione che, insieme alla misura, costituiva il fine ultimo per velare la verità. All’arrivo invece di Dioniso, con i suoi eccessi di gioia, dolore e conoscenza, tutto quello che era un limite si rivelò un’illusione e tutto ciò che era eccesso si dimostrò la verità. L’estasi dello stato dionisiaco annientava i limiti abituali dell’esistenza entrando di fatto in un oblio dal quale però se ne usciva, ritornando alla realtà, con il disgusto per l’assurdità dell’esistenza umana.
Questo poteva davvero rappresentare la fine di tutto, ma la volontà ellenica si affidò all’opera d’arte tragica e all’idea tragica, trasformando quel disgusto per l’assurdità della vita in rappresentazioni: il sublime e il ridicolo.
I due elementi, intrecciati insieme nell’opera d’arte che imita l’ebbrezza, non coincidono con la verità, sono sicuramente più trasparenti della bellezza ma sono comunque un filtro, c’è quindi un mondo intermedio tra bellezza e verità dove Apollo e Dioniso convivono. Ed è così che l’attore cerca di rappresentare l’uomo dionisiaco racchiudendo in sé il poeta, il cantore, il danzatore istintivo, superando la bellezza e la sua esteticità senza cercare la verità. Rimanendo equidistante dalle due, “egli non tende alla bella parvenza, bensì all’illusione, non tende alla verità bensì alla verosimiglianza”.
Nel nuovo mondo dell’arte, quello del sublime e del ridicolo, quello nato dopo la conoscenza dell’assurdità dell’esistenza e della sofferenza in essa innato, gli dei si dividono in questi due gruppi e solo Dioniso rimane in sospeso tra i due.
Ecco quindi Apollo e Dioniso, quasi sempre in lotta tra loro, uniti uno all’altro nella tragedia attica: l’uomo raggiunge così l’estasi dell’esistenza solo nel sogno e nell’ebbrezza.
Poc’anzi ho menzionato la musica come espressione della verità, sì perché l’elemento musicale è importante nella tragedia e, come tutti gli altri elementi, subì variazioni nel tempo.
Inizialmente la musica come arte apollinea era costituita da suoni appena accennati della cetra; poi diventando anche arte dionisiaca diventa importante l’elemento ritmico con la forza del suono.
La musica si spogliò così di ogni costrizione: la ritmica prese vita nella danza (tamburi e cimbali), la voce strumentale si potenziò accompagnata dagli strumenti a fiato (siringa o flauto di Pan). Nacque l’armonia. Il mondo dionisiaco fece udire cose che nel mondo apollineo erano nascoste. Il suono diventa la lotta tra verità e bellezza.
Per usare le parole dello stesso Nietzsche “il mondo apollineo è fondato sui criteri di armonia e perfezione formale, si esprime prevalentemente nelle arti plastiche; il mondo dionisiaco, negatore di ogni limite, conduce a quell’esaltazione, quell’uscita da se stessi che solo la grande musica o il vino possono dare. L’artista apollineo interpreta la vita come fosse un sogno; quello dionisiaco vive, senza fermarsi a interpretare alcunché, come se fosse in stato di ebbrezza. Apollo misura, cerca la giusta distanza dagli oggetti, li rappresenta liberamente ma sempre secondo regole, tenta, in sostanza, di capire la natura. Dioniso accetta il mondo com’è, rifiuta ogni lontananza, è il sì alla vita nella sua totalità, compreso il caso, il dolore, la morte, è il Dio pazzo che beve, danza e ride. Entrambi gli aspetti sono necessari all’arte, perché lo spirito dionisiaco deve essere moderato dal suo contrario…”.
Giorgio Colli, grande filosofo e filologo, nel suo Apollineo e Dionisiaco, partendo proprio dai concetti introdotti da Nietzsche, va oltre sottolineando la straordinaria fertilità della contrapposizione fra tali elementi definiti dallo stesso Colli “interiorità ed espressione”, fenomeni, sempre per usare le parole dello stesso filosofo “complessissimi, e non vi sarà di che stupirsi se si troveranno commisti ed intrecciati, e si rileverà un aspetto dionisiaco dell’apollineo e per contro un’attitudine apollinea del dionisiaco, perché nel segreto più riposto del segreto della vita cadono e svaniscono tutte le distinzioni”.
Secondo Colli, però, Nietzsche analizzò i due concetti in modo diseguale perché l’apollineo è visto nel suo momento culminante, nella creazione artistica, mentre il dionisiaco è analizzato nella fase iniziale e primordiale.
Di conseguenza, essendo l’apollineo espressione ed essendo quest’ultima frutto di un’interiorità, in un certo senso l’apollineo è fin dall’inizio del suo esistere dipendente dal dionisiaco. Questo però non vuol dire che in esso non ci sia una ragione di esistere, anche perché non basta l’esistenza dell’aspetto rappresentativo ma occorre ci sia anche il lato creativo ed espressivo perché si possa parlare di apollineo, tanto che nemmeno i filosofi o i poeti tragici potranno eliminare l’aspetto apollineo connaturato.
Per tornare quindi all’iniziale definizione di interiorità ed espressione, l’uomo apollineo ha comunque una vita interiore, la cui negazione contrasterebbe con i suddetti concetti perché l’unione di questi due elementi costituisce la vita stessa. Semmai si può dire che esiste un uomo nella cui esistenza prevale l’aspetto apollineo.
L’ebbrezza che scaturisce da un potenziamento dell’interiorità è frutto della trasformazione dell’intimo.
Il giovane che ha optato per il vivere dionisiaco si ritira in se stesso e, anche se vive in mezzo agli altri, si sente solo e inappagato (presocratici – filosofi precedenti Socrate), nessuna apollineità è ritenuta degna di considerazione perché puro fenomeno esteriore e non essenza.
Ciò nonostante l’interiorità ha bisogno di esprimersi in qualche modo, in questo mondo, ma si tratta di un’apollineità superiore, anche perché “Apollo è il dio dell’espressione nel senso più vasto e nessuno può sfuggirgli, oltre il fatto che ogni espressione ha dietro di sé un’interiorità….C’è una distinzione tra apollineo generico e quello che è espressione di un’attività spirituale umana, filosofia, arte o scienza che sia: il primo è autonomo e vive separato dal dionisiaco, l’altro invece ha l’interiorità sempre rilevante anche se non facilmente scopribile”.
Questo dualismo Apollo/Dioniso lo si ritrova anche nella danza e non solo all’epoca dell’antica Grecia e della tragedia attica in cui è più legata a Dioniso, basti pensare alle dionisie o baccanali all’epoca romana ma anche al periodo di Luigi XIV in cui il suo aspetto apollineo di danza accademica, in contrasto con quella popolare tipicamente dionisiaca, è preponderante.
Delle danze dell’epoca antica ci rimangono solo le illustrazioni sui vasi con le figure di lato, accenni di passi base per la danza classica come il plié, torsioni innaturali di corpo e testa quasi a voler rappresentare delle piroette, in cui le rappresentazioni di Dioniso la fanno da padrone. Gli uomini sono spesso nudi, al contrario delle donne elegantemente vestite; i primi saltano in atteggiamenti animaleschi quasi a voler ricordare satiri e fauni più volte rappresentati mentre le seconde si muovono in modo leggiadro e suadente.
A questa rappresentazione della danza bidimensionale per esigenze oggettive, quali possono essere immagini dipinte su vasi o bassorilievi, si ispirò Nijinsky nel suo capolavoro L’après-midi d’un faune, quindici minuti circa di danza di profilo, che si sviluppa quasi esclusivamente sul proscenio e in direzione parallela al palcoscenico senza sfruttare le linee verticali e le diagonali, quasi a voler maggiormente sottolineare la bidimensionalità della coreografia.
Della danza del ‘700 – ‘800 ci rimangono invece maggiori informazioni tramite decaloghi dell’epoca in cui si descrivono anche molti dei passi che ancora oggi fanno parte del bagaglio della danza classica. Ovviamente in questo periodo la fa da padrone Apollo e tutta la sua estetica con la qualità del movimento.
In questo dualismo si è quindi sviluppata tutta la danza nel corso dei secoli ma oggi, come dichiara Vittoria Ottolenghi nel suo L’enigma, l’estro, la grazia “non esiste più quel Dionysos e quell’Apollo. Dionysos e Apollo sono morti come tali; sussistono come qualità di movimento, come connotazioni. La danza – forse la vita- di oggi e di domani sta nella fusione di questi due elementi, o nell’interazione tra loro, che ci aiutano a superare ogni sterile atteggiamento manicheo”.
In fondo questa diversità non è poi così vera, perché sono entrambi le due facce della stessa medaglia se riferendoci alla mitologia vediamo più da vicino la nascita di questi dei, di fatto fratellastri.
Dioniso, infatti, sarebbe figlio di Zeus e di Semele. Si racconta che Zeus avesse avuto da Persefone un figlio di nome Zagreo. Zeus voleva farne il suo successore ma, vista l’ira della moglie Era, il piccolo era stato affidato dal padre alle cure dei Curedi. Era non ancora placata, però, si rivolse ai Titani i quali uccisero Zagreo. Il cuore sarebbe stato portato da Atena a Zeus il quale lo avrebbe mangiato e poi si sarebbe unito a Semele, generando Dioniso.
Apollo invece sarebbe figlio di Leto e ancora di Zeus.
Al di là della mitologia, autorevoli autori dimostrano che non esiste questa netta distinzione tra ballerini dionisiaci e apollinei ma, anzi, sottolineano l’intreccio quasi indistricabile delle due nature e, inoltre, essendo nell’ambito della danza classica, qualsiasi ballerino di alta scuola accademica ha in sé, volente o nolente, quelle caratteristiche apollinee ripetutamente insegnate nelle scuole coreutiche, caratteristiche che indicano in modo quasi ossessivo le modalità di esecuzione dei passi e della tecnica, del controllo maniacale del corpo in ogni sua più piccola parte, dall’indice della mano alla punta del piede. E questo aspetto apollineo viene talmente assorbito dal ballerino che se sei un’artista, come dice Alessandra Ferri, te ne puoi anche dimenticare per lasciarti andare all’interpretazione ma prima la tecnica la devi servire, fino in fondo.
Ecco perché non mi fanno impazzire quei ballerini il cui unico scopo è riuscire a fare una piroetta in più della volta precedente, e non credo che un’artista dovrebbe entrare in questo meccanismo per strappare un applauso, magari a scena aperta, perché questo è il classico esempio della tecnica fine a se stessa e non al servizio di qualcosa di speciale che si crea tra il corpo del ballerino, lo spazio intorno a lui e il pubblico in sala.
D’altro canto non mi piacciono nemmeno i ballerini che danzano dando quasi la sensazione di gettare via i passi, i movimenti, i gesti; sono quei ballerini che qualcuno definisce dionisiaci, attribuendo questa “sciatteria” all’interpretazione, perché essi non sono pura apparenza ma “sentono” nel profondo di se stessi.
Io credo e condivido invece quello che dice la Ferri: interpretare ma con tecnica, perché la bellezza del movimento, la sua eleganza, la cura del particolare è importante per creare quest’arte quanto lo è l’interpretazione, con le sue sensazioni viscerali, passionali, perché la danza è anche pura bellezza estetica, le immagini mentali che fissano nella nostra mente, come fossero quadri, le figure eseguite ci fanno sognare tanto più se sono eteree, senza peso, quasi a sovvertire le regole fisiche della forza gravitazionale, in un’ascesa idealizzata all’infinito.
In ultima analisi la perfezione la si raggiunge se viene a crearsi un intreccio tra i due aspetti, un’alchimia che non faccia rimpiangere né l’uno né l’altro.
> Eleonora <
**********
Si precisa che nell’articolo sono stati riportati alcuni brani tratti da La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche e da Apollineo e Dionisiaco di Giorgio Colli.
Bibliografia
La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche – edizione Adelchi 1977
Apollineo e Dionisiaco di Giorgio Colli – edizione Adelchi 2010
L’enigma, l’estro, la grazia di Vittoria Ottolenghi – edizione Mimesis 2014
La danza classica – Le origini di Flavia Pappacena – edizione Laterza 2009
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Molto molto interessante, ho letto con avidità. Mi affascinano in particolare le “contaminazioni tra civiltà”, a dimostrazione che erigere muri… non serve a nulla. Dovremmo riferirci ai punti in comune che, grazie a tali influenze passate, sono molti più di quanto comunemente si pensi, piuttosto che alle differenze.
Un caro saluto 🙂
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L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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Grazie per la condivisione 🙂
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Un articolo davvero molto interessante, compliementi!
L’ho letto e ne ho preso spunto per la mia tesina di maturità sulla danza, partendo dai due impulsi: Apollineo e Dionisiaco
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